A VICENZA DA ENRICO MITROVICH (parte prima)

A VICENZA DA ENRICO MITROVICH (parte prima)

Un giorno di fine gennaio sono andata a Vicenza per incontrare Enrico Mitrovich.
Avevo deciso che la mostra successiva a Formaprima sarebbe stata dedicata a lui.

 

Volevo conoscerlo meglio – ci eravamo già incontrati, presentati da un comune amico – intervistarlo e raccogliere indizi per farmi un’idea più precisa sulla sua arte.
Ci siamo visti all’Officina delle arti, uno spazio espositivo che gestisce insieme all’incisore Giovanni Turria, una vecchia tipografia dove vengono anche organizzate mostre e incontri di poesia.

 

All’officina Enrico non dipinge, ma conserva i suoi quadri in una piccola stanza rivestita di boiserie azzurra. Semplice, garbato, arguto e divertente, Enrico ha grande raffinatezza di pensiero. La sua pittura è delicata, colta e giocosa, a tratti malinconica e misteriosa: il suo linguaggio è insieme ironico e poetico.
Abbiamo cominciato a parlare di…videogiochi. Sembrerà strano (ma non lo è) ma abbiamo proprio cominciato da quello.
Sì perché i videogiochi (e il mondo dell’elettronica) sono stati fonte di grande ispirazione per lui, per almeno un ventennio…

 

GMM

Parliamo dei videogiochi, che sono stati per te motivo d’ispirazione forte e sui quali hai riflettuto molto….

EM

Sì, è vero. I videogiochi nascono in un periodo in cui le macchine hanno potenzialità tecniche limitate, sia i video che i processori. Lo sforzo dei programmatori era quello di riuscire a sviluppare un immaginario con risorse scarse, limitate. Guarda caso l’iconografia utilizzata è molto simile, nei videogiochi di prima generazione, a quella dei graffiti rupestri. Avevo trovato una somiglianza col tratto sintetico, estremamente conciso dei graffiti. Le tematiche stesse dei videogiochi sono le stesse: ci sono dei labirinti, degli scenari estremamente brulli, ci sono pochi oggetti. E poi si giocavano in stanzette che erano sempre un po’ buie: erano delle grotte, delle piccole caverne. Il videogioco rappresentava un momento di astrazione dal quotidiano, una specie di rifugio. Questo immaginario, questo universo nei miei quadri l’ho fatto esplodere. Le figure sono diventate delle specie di personaggi che vivevano una vita propria: questo è il senso della mia produzione sui videogiochi. L’aspetto concettuale che sta alla base di questa serie di opere l’ho mutuato da Alberto Giacometti, che cito testualmente: “Impossibilità assoluta di disegnare il movimento dal vero. Inventare è sbagliato, lasciare perdere. Solamente immobilità oppure gesti che diano l’illusione del movimento nell’immobilità assoluta. Pittura rupestre. Disegni nelle caverne, caverne, caverne. Lì e soltanto lì il movimento è riuscito…” E io aggiungo: “Se i videogiochi di prima generazione avevano i tratti della pittura rupestre gli ingombranti baldacchini che li contenevano avevano ai miei occhi tutte le caratteristiche delle grotte dove rifugiarsi per sfuggire almeno per qualche istante agli impegni quotidiani.”

 

 

GMM

Mi incuriosisce questo fatto. Ciò che viene da me considerato, forse a torto, una cosa sterile dal punto di vista creativo, tu invece la consideri una preziosa fonte di ispirazione.

EM

Per me lo è stato. I videogiochi per me hanno una funzione calmante, questa ripetitività è calmante.

GMM

Mi sorprende. Si dice di solito che il videogioco tenda ad eccitare, proprio per la ripetitività e soprattutto per la velocità che le sono proprie: il movimento, il ritmo nel videogioco aumentano sempre di più. Come si alza il livello di difficoltà la velocità aumenta. Ho visto mio figlio stressato per questa cosa. Mi ha fatto riflettere sul fatto che tutta questa velocità che viene esercitata e allenata produce, come effetto negativo, un’inibizione della capacità di riflettere sulle cose…

EM

Perché poi tuo figlio agisce d’istinto?

GMM

Non solo. Mi sembra che i videogiochi inibiscano la capacità introspettiva e anche lo sviluppo della creatività, perché non si fa in tempo ad annoiarsi, si è sempre intrattenuti. La noia, invece, attiva la creatività. L’antidoto a questo tipo di attitudine è la lettura, che è proprio l’attività che puoi svolgere coi tempi che vuoi, che ti scegli tu, senza pressioni.

EM

In questo però hai ragione tu. E comunque il potere di attrazione dei videogiochi su di me è limitato al periodo del loro esordio, non mi interessano quelli attuali. In quel periodo i codificatori dei videogiochi erano delle specie di artigiani. I codici, le modalità con cui venivano sviluppati avevano le stesse caratteristiche dei manufatti. C’era tutta una letteratura legata a questi linguaggi informatici che sono sempre misteriosi, con le loro sequenze alfanumeriche. Era bello interlacciarli con rimandi a testi antichi. Cito questo perché è l’unico che conosco: Policleto dice che “…il bello si realizza poco a poco attraverso molti numeri”. Tutto questo immaginario dei codici che si intrecciano, che tu, uomo, riesci a dominare per poi sviluppare delle sequenze, produrre algoritmi che riproducono un’immagine, e che questa immagine ricorda un graffito rupestre… tutto questo crea un’atmosfera, una dimensione che puoi cercare di rivisitare attraverso un altro linguaggio, che è poi quello pittorico. Questo è un po’ il senso di quello che ho inteso fare. Ciò non toglie minimamente valore a quello che hai detto prima…

 

 

GMM

C’è un motivo se i ragazzi si rifugiano nei videogiochi. Lo dicevi tu, sono come delle grotte per sfuggire al quotidiano. Io ho sempre pensato che giocare con i videogiochi distogliesse dalla realtà. E’ importante sperimentare la vita col proprio corpo.

EM

Io ho studiato economia all’università; ero in difficoltà, non riuscivo più a finire il percorso di studi e ho cominciato a giocare coi videogiochi e soprattutto con Pacman, che ho dipinto e stradipinto per riconoscenza. I videogiochi mi lenivano, perché ero in uno stato di costante agitazione. Quando andavo a studiare – quando cercavo di studiare – mi fermavo nei bar e osservavo per ore gli altri che giocavano, le loro abilità…era uno spettacolo! E poi quest’immagine bidimensionale e anche le musichette, che sono sempre dei gingle, erano per me una sorta di semplificazione pacificatoria: per quello l’ho utilizzato.

GMM

Ma secondo te l’utilizzo dei videogiochi non è anche legato al più o meno facile soddisfacimento di un obiettivo, non ti dava la gratificazione di avere raggiunto un obiettivo?

EM

Può darsi, ma poi io nemmeno li completavo. Io li ho sempre visti in maniera metaforica, lo score, il tempo, il punteggio…è la vita! Sono sempre stati una sintesi, un surrogato della vita, ma abbastanza fedele! Poi in quegli anni c’erano due mondi: il mondo del dos, il sistema di programmazione e il mondo dell’apple, che è l’interfaccia grafica: io ero più affascinato dal mondo alfanumerico, cioè dal dos. Gli americani avevano fatto degli studi e avevano scoperto che chi era abituato a utilizzare il mondo alfanumerico (e questo va nella direzione di quello che dicevi tu) e quindi non ha immagini compiute, è più creativo. I videogiochi della prima generazione erano quasi sempre alfanumerici. Erano molto rudimentali e legati al fatto che le scarse risorse informatiche obbligavano i programmatori a sostituire alle immagini tutte stringhe di testo…”sei in una stanza buia….devi trovare la chiave….”

 

E. Mitrovich, Scan disk (dettaglio)

(continua…)