RYAN E LA STREET ART (racconti)

RYAN E LA STREET ART (racconti)

“Stavo spesso in giro la notte a fare questi disegni, sembrava una missione segreta nella mia testolina. A volte avevo appresso pure l’ukulele, una piccola chitarrina che si inzuppava di macchioline di colore mentre mi affrettavo ad applicare su dei muri grezzi qualcosa che potesse sembrare arte. L’arte, sinceramente, gira l’angolo e ti sorprende: qualche volta mi bastava una crepa e qualche linea sottile di nero per fare un’opera epocale.

Epocale è la semplicità, le curve della strada e la gente di merda che ti apre il cuore come disperata routine secolare. A me piace la franchezza delle persone che stanno in mezzo alla via, forse per questo mi piace disegnare sui muri. Tante volte ‘sta gente esagera comunque, credo che pure la Street art sia l’esagerazione prepotente di qualche urla che non si ferma abbastanza per spiegarsi bene.
Va bene pure così, non è che ci sia tutto questo tempo e spazio per ragionare, la vernice si secca, diventiamo vecchi o riconosciuti e ci dimentichiamo di quella notte.”

“Non so esattamente chi avesse cominciato a usare la bomboletta spray; già da anni scrivevamo il nome della nostra squadra di skateboard sui muri con gessetti e pastelli.
‘Potato head posse’ era il nome, la gang delle teste di patata.
Quando abbiamo iniziato sul serio alcuni di noi hanno cambiato crew facendo quelle scritte più o meno fighi in tutto il mondo. Alcuni sono diventati strabravi con la bomboletta.
Io non riuscivo a fare bene le lettere toste, forse mi venivano meglio le cose pazze e le scritte stupide. Ho scelto la tag “sbadiglio” perché all’università ho letto che persino a leggere la parola ti viene di farlo. La mia crew si chiamava “good times”, bei tempi. Eravamo i più sfigati del quartiere, quelli più bravi hanno aperto un negozio e sono diventati miliardari, qua mi viene il dubbio sul significati del termine street. (…)”

“Tanti dei miei amici con cui facevi i graffiti si sono messi a farsi di eroina, mi rendo conto che la gente ‘sovversiva’ è spesso molto sola e abbastanza insicura e incasinata. Mi dispiaceva vederli nel loro appartamenti mezzi morti, ma spesso mi innamoravo di queste tipe assurde che giravano a casa loro.
Forse mi piace la tristezza finché dura, la vera tristezza comprende intere epoche, non soltanto i capricci di alcune sostanze e qualche disco malinconico, la vera tristezza non sa dove andare, scrive sui muri, fa delle critiche azzardate, ma soprattutto fa un lavoro che detesta. In questo sono fortunato, disegnare mi piace tantissimo, quasi più dell’ipotetico successo internazionale che porta.”

“Uno dei miei amici fattoni è uscito pulito dalla clinica, sembrava un bambino appena nato, ci siamo beccati una sera e avevo con me una bomboletta nera che stava nel camioncino che mi ha prestato mio padre. Il mio amico rinato ha cominciato a disegnare mutande su ogni superficie possibile. Dove trovava un quadrato di qualsiasi dimensioni faceva tre linee e diventavano mutande.
Una volta stavamo dipingendo vicino a un lago, lungo la ferrovia e sono arrivate le guardie.
Il mio amico ebbe l’idea geniale di nasconderci nel lago, gli agenti pure avranno visto un sacco di film e facevano passare i fari sull’acqua e noi ci tuffavamo sotto per non farci vedere. Un’agente gridò: ‘Ho trovato qualcosa!’ La sua voce viaggiava benissimo a pelo d’acqua, ‘Cos’è?’ hanno chiesto i suoi compagni coraggiosi, “…sono mutande, mutande disegnate dappertutto!”

“Il termine ‘street’ è stato spalmato su tante strade, ma quella che seguo da tempo, pure a fatica, è quella dove la gente ha un’esagerata esigenza di condividere esperienze, emozioni e qualche panino. L’arte viene dopo, non prima.”

Ryan Spring Dooley